Come sarebbe
Le cicale. Uno dei fastidi più logoranti dell'estate. Come il fruscio fastidioso di un vecchio vinile a spasso su un vecchio grammofono che ostenta il suo sbocco del suono.
Niccolò mal le sopportava, anzi, non le tollerava per niente. Già solo il pensiero della sera, momento in cui ci si mettevano pure i grilli e le civette in concerto, lo metteva in uno stato d'animo contrario. Ascoltarle avrebbe complicato il suo futuro. Ci doveva mettere orecchio. Un giorno.
Probabilmente, dimoravano sull'albero al confine della villa, un albero; avrebbe chiesto al giardiniere cosa fosse, non se n'era mai interessato. Bé, pure alle aiuole non aveva mai badato: erano chiazze di colori a cornice del vialetto che percorreva in auto. Al tramonto, con le luci meno invasive, si sarebbe degnato di osservarle per bene, avrebbe misurato passo passo la distanza dal portone al cancello, controllato che i sanpietrini fossero in piano, senza sbeccature, senza ostacoli, considerato l'idea di sostituirli con una uniforme colata di cemento. Ma poi, a che pro? A piedi lungo il vialetto non ci sarebbe mai andato e il giardino era troppo pericoloso.
Tutti quegli stupidi nani e le poltroncine di vimini e le sdraio accanto alla piscina, la piscina stessa prima del gazebo dove era solito leggere il quotidiano, il quotidiano stesso...
Era ora di ingegnarsi col computer, di capire l'utilità degli assistenti vocali e dell'immediatezza delle informazioni dal mondo. La comodità di restarsene in panciolle mentre la gente commetteva e attuava e faceva e disfaceva e andava e tornava e viveva: il movimento del tutto a vorticare davanti e intorno al suo corpo immobile.
La villa era troppo grande per lui solo, da quando lei si era trasferita nella casa in città coi bambini; il divorzio le era stato più che conveniente, a pensarci poi, perché Niccolo quella villa, già prima, non l'aveva mai sentita sua, così chiassosa di rumori a fior di pelle, con quella natura così imponente nel suo concerto. Se l'era tenuta per ripicca la villa, lasciando intendere che ci avrebbe fatto tutto il suo sporco comodo, in preda alla rabbia per l'istanza di divorzio. Quando mai si era sollazzato in feste e festini, lui sempre così malinconico da rinchiudersi in un bar di quart'ordine a sorbirsi il suo scotch?
I rumori di città erano più semplici, d'abitudine. Ma con la natura non si aveva scampo.
Gli insetti erano tarli, tutti: impiccioni dei pensieri più inopportuni, i rancori sepolti e i rimpianti a rimpiattino e i rimorsi da panca per gli addominali, in una ridda da mal di testa e malumori.
Il mare inclemente e lunatico, o troppo melenso o troppo rabbioso, un'amante assolutamente affascinante da far sbizzarrire la bussola fra le contorte rotte della sua coscienza. Di giorno, coi figli a divertirsi: quello era l'unico momento in cui ne godeva della bellezza come un Narciso innamorato.
Ora era semplicemente un uomo, non più padre né marito né figlio.
E Niccolò, con se stesso, non se la sarebbe passata granché bene domani.
Nessuno sapeva dei suoi tormenti, doveva masticarli e vomitarseli addosso un giorno dopo l'altro. Doveva imparare a conviverci, prima che la notizia diventasse di dominio pubblico. Doveva imparare. Una mano sugli occhi.
Troppe stanze che non conosceva e che non servivano, con quegli impercettibili scricchiolii di mobili. Troppi mobili ovunque, e tappeti ingombranti, e scale e gradini. Tutto troppo.
A quel punto lo assaliva l'ansia e la paura lo avvinghiava nella carne nuda. Quando sei tutto d'un pezzo, raccogliere i cocci diventa il più duro dei lavori.
Dopo anni, aveva riassaporato la salsedine delle lacrime, rendendosi conto di quanto fosse bugiardo il mare: niente si cura lavando via le orme sulla sabbia. Ci affondi in quella rena e gli occhi bruciano e puoi solo affogare, per quanto ti divincoli.
Due gocce di collirio per occhio, testa buttata all'indietro, fresco dei rivoli fino alle orecchie, per tre volte al giorno; se le metteva da solo chiudendosi nel suo studio, con l'auricolare a dettar legge ai suoi assistenti in giro in sua vece. Delegare era stata la prima cosa ad imporsi, ammaestrare ad essere le sue gambe e i suoi occhi, perché doveva, e voleva ad ogni costo, sentirsi il solito uomo di ferro, anche con un bastone, prima di ributtarsi nella mischia.
Altro che psicologo! Niccolò si curava da solo. Accantonate le lacrime inutili, una mano sugli occhi a sbattere le ginocchia e perdere l'equilibrio e l'orientamento, era stato il suo sistema di difesa.
Corrimano e bande ruvide sul pavimento, meno mobili, più spazio libero, mani sulla fiamma e poi nel ghiaccio di modo che si sensibilizzassero già, in vista del domani, quel maledetto domani senza una data.
Vedere a memoria, il tocco dell'iride col sudore del cristallino, passi decisi e il solito portamento fiero, come un signore d'altri tempi con il suo bel bastone da passeggio, già pronto nell'armadio.
Quando fosse giunto il momento, Niccolò sarebbe stato pronto. Da solo.
Forse era quello che chiamavano "orgoglio dell'handicap".
L'aveva accettata la diagnosi ultima di progressiva cecità, e non si faceva illusioni ma la Scienza era un dio potente e chissà...
I colori... quanto impiegavano a scolorirsi nella memoria?
Il suono era stato l'ultimo step del suo addestramento al domani, quello più arduo da affrontare. In città non gli avrebbero dato noia i rumori, ma era molto più difficile gestire gli intoppi per strada.
Era nella villa che avrebbe vissuto la sua condanna, affidandosi ai domestici alla bisogna, ma non era il tipo da invocare aiuto.
Nessuno sapeva né avrebbe saputo, finché fosse stato possibile mascherare la sua privazione dietro gli occhiali da sole.
Il mare di sottofondo gli era già amico, capiva la sua malinconia senza fare domande.
Stringere un'alleanza con le cicale era la sfida.
Un sospiro, una mano sugli occhi e Niccolò si sforzava di arrotare le lame per scendere a singolar tenzone col suo vissuto.
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