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Immagine del redattoreAnnamaria Ricco

La stanza verde di Rembrandt

Sono diventato un pittore della domenica per togliermi di bocca il sapore di morte, ammazzare la noia e innalzare il mio ego.

Un pittore amatoriale, molto dilettante, ma gli altri non erano molto migliori e la cosa mi provocava un certo senso di appagamento: potevo dirmi un artista, certo surreale, rispetto alla maggior parte di quei patetici imbrattacarte.

Nessuno possedeva una tela, figurarsi un cavalletto, né set di colori e pennelli in decorose valigette con scompartimenti ad hoc.

Come zombie, ci si ritrovava sulla riva del fiume poco distante dal college, studenti da un lato e profani dall'altro.

A volte capitavano anche delle ragazze e alcuni dotati di buona vista sfogavano le frustrazioni sessuali disegnando abbondanti bozzetti di corpi nudi, spogliando quelle ingenue giovinette intente in pic nic su plaid scozzesi o ridanciani giochi di palla.

In una ipotetica partita a tennis, divisi dalla rete del fiume, si sarebbe finiti in parità; anche noi del college vantavamo non pochi ebeti dotati in egual misura di brufoli e pruriti.

All'orizzonte ovest si stagliava il gigante di ferro, un antico ponte vanto dei cittadini; dall'altra parte, un'indefinita foce che si perdeva alla vista come un'eco.

Vedere e sentire: due facce della stessa medaglia. La sensibilità.


Ciò che mi spingeva su quel prato curato (siamo inglesi, ci sappiamo fare), era tutto quel verde che allagava gli occhi, protendendosi sulle acque imbolsite con una prepotenza da gentleman.

Ho una debolezza per l'ordine.

Un prato lo puoi curare. Un fiume non lo puoi gestire.

Il verde placa e la domenica ho un forte bisogno di smaltire i giorni passati e pensare che andrà meglio.

Evito di guardare il ponte, incrocio le gambe sul morbido tatami verde nature e mi sporco le dita con pastelli a cera di dozzinale fattura.

Le fronde degli alberi stormiscono ancora più verde nell'aria e, per un attimo, dimentico le ombre nette del ponte che invitano alla morte.

Sarà anche esempio di ottima ingegneria british ma non so dimenticare tutte le storie di poveri reietti che si sono involati o sono stati scaraventati oltre la ringhiera di ferro, nel buio delle acque.


Una di queste storie riguardava Rembrandt.

Lo chiamavano così, forse perché aveva insegnato Storia dell'Arte un tempo, proprio lì al college; di certo fisicamente non somigliava al pittore olandese e nessuno lo aveva mai visto dipingere.

Il professor Rembrandt era un residente ad honorem. Continuava a vivere lì pur essendo in pensione e pur non avendo alcun ruolo nell'amministrazione scolastica.

Un pover'uomo, forse impazzito, forse troppo saggio, sicuramente interessante.

Nelle domeniche di sole lo trovavo spesso lì, in mezzo al branco degli zombie. Sedeva nel cono d'ombra più spazioso, le gambe distese e accavallate, la schiena dritta contro il tronco dell'albero, una bombetta tenuta bene, abiti di naftalina accademica e anacronistici occhiali da sole a specchio.

Spesso distoglievo l'attenzione dal ronzio del ponte e mi giravo a guardarlo, sdraiato prono sul mio pezzo di prato, le dita unte intrecciate sotto al mento: le sue lenti ovali erano invase di verde.

Un alieno dalla bocca in linea retta. Un alienato, strafottente e intrigante.


Fu durante l'autunno che mi spinsi fino alla sua stanza, l'unica porta in cima alle scale dell'edificio maestro.

La pioggerella malinconica di stagione non dava requie, unitamente alla foschia nebbiosa, arcigna compagna della noia, dell'insoddisfazione, della morte. Lo spleen.

Non si poteva più andare a pascolare lungo il fiume e le mie scorte di scotch d'innocuo contrabbando fra compagni volgevano pietosamente al nulla.

Era stato per sfuggire al post-sbronza che avevo cominciato a dipingere e, in assenza di quei momenti all'aria aperta, la mia anima si tormentava e fremeva e si lagnava nel languore dell'ozio.

Mi mancavano tremendamente quei momenti.

Avevo consumato un unico pastello, il verde, nella furia della solitudine: il soggetto era il mio prato ma un guizzo improvviso mi aveva fatto lasciare spazi bianchi che ricreavano le sembianze di un piccolo cane che aveva sventrato un cuscino di piume; sparse sul verde, sembravano margherite infestanti.

Ero talmente soddisfatto del risultato che desideravo ricevere consensi.

Soddisfo sempre il mio ego quando prende il sopravvento: mi tiene lontano dalla follia dell'annichilimento.

E il consenso mi doveva arrivare da Rembrandt. Così volevo, che mi adorasse e idolatrasse come Pigmalione.

Lui, che qualcosa doveva aver perso nella vita, proprio lì sul sinistro ponte, poteva fare di me la sua creatura, istruirmi, adularmi, amarmi.

Nutrivo una pulsione che finalmente si era rivelata nella sua natura.


Bussai una volta e bussai ancora, con nocche ora impazienti ora impaurite.

Non avevo arrotolato il foglio col mio piccolo capolavoro e il sudore del palmo aveva slavato il verde su un lato. D'istinto mi portai il foglio al petto e strofinai la mano sudata sulla gamba dei pantaloni.

Non indugiai oltre. Aprii la porta senza invito.

Entrai nella stanza verde di Rembrandt.

Si era ricreato il suo pezzo di prato, un cubo verde in cui la sua presenza s'imponeva solenne come una statua greca in un museo.

Nonostante fosse lì a due passi, in un silenzio immobile, non aveva voluto rispondere né sembrava preoccupato o conscio della mia presenza. Fissava una delle pareti come se gli parlasse o come se fosse affacciato su un panorama che non volesse condividere.

- A cosa sta pensando? - chiesi sottovoce, fermo al suo fianco.

I miei passi erano stati felpati sulla moquette, verde come un tavolo da biliardo, ma dubito che avrebbe fatto alcuna differenza se anche avessi arreccato calpestii.

Gli occhiali, con le stanghette chiuse, giacevano a terra; le lenti a specchio rimandavano stralci delle nostre ombre.

Non potei resistere alla tentazione di guardare i suoi occhi e, al contempo, d'imporre la mia figura alla sua vista.

Quale meraviglia! Eterocromi. Uno di un verde fragile, sull'orlo della commozione, l'altro di un verde muschioso che incuteva terrore e timore.

Non battè ciglio alla mia intrusione nel suo panorama. Mi sentii una sagoma piatta, bidimensionale, e mi tornò alla mente la storia del suo suicidio, l'ipotesi più plausibile per il suo soprannome: Rembrandt aveva un difetto alla vista che non gli permetteva di percepire la profondità e quell'uomo, privato a più riprese delle persone più care, si era buttato dal ponte ed era sopravvissuto, come se avesse semplicemente scavalcato una staccionata. Lo specchio del fiume doveva essergli parso un pavimento liquido alla distanza di un passo.

Ma allora... Si era trattato di un suicidio o piuttosto di una fuga dalla realtà?

Che pungente sarcasmo gli era stato riservato per anni! Fosse morto allora, soltanto elogi si sarebbero intessuti intorno alla sua figura di docente.

La gente non conosce la profondità, altrimenti andrebbe sul ponte...

Ecco dove dovevo volgere i miei passi.

Rembrandt aveva lentamente alzato un braccio e l'indice puntava verso la parete, verso un oltre che ancora non potevo vedere e comprendere.

Sembrava che, da un momento all'altro, dovesse proferire "L'Orrore!", come Kurtz, e scappai via.


L'acqua laggiù pare marmo screziato: si muove così blandamente, alla luce lunare, da sembrare ferma.

Tutto quel verde di contorno inghiottito dalle tenebre...

Lascio cadere il foglio monodimensionale in un'atmosfera a due dimensioni, la mia e quella reale: non ho il coraggio di scoprire la profondità. L'euforia molliccia dell'alcool è svanita nell'aria fresca della notte.

Puerilmente attaccato al mio ego, mi rendo conto di essere solo un bambino incapricciato dal sonno e che non potrò mai svelare i misteri della stanza verde di Rembrandt.

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