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Immagine del redattoreAnnamaria Ricco

L'arte è pathos dell'essere

Come nasce l'arte




"Cazzo, non passa!", si urlava nella mente.

Il malessere era male sottile insinuato tra le pieghe del cervello su di giri.

Da fuori, avrebbe potuto essere scambiata per noia, ad occhi superficiali, perché Eros era un artista solitario, chiuso nel suo loft a scalfire blocchi di marmo con colpi di scalpello diventati deboli.

Non riusciva a tirar fuori l'anima da quell'ammasso grezzo, così simile alla sua testa .

Disquisire di meccanismi intellettivi non è semplice.

Il lavoro andava bene, la famiglia non lo stressava più del dovuto, grana ne aveva, spasso anche, sentimenti non gli erano necessari, li riversava tutti nel gesso, nella pietra, nel marmo.

Quei colossi duri e freddi gli ispiravano tutti i sentimenti possibili. In genere, riservava al marmo la passione, alla pietra la rabbia e al gesso l'amore. Li plasmava con le sue mani sanguinanti pathos come creature ultra terrene.

"Vieni a pranzo da noi?", la madre.

"Bro, passo da te?", l'amico.

"Ho voglia di te... stasera?", una delle tante.

"E' pronta la statua?", il gallerista.

Messaggi con domande, come se avesse una risposta per tutto, lui che non riusciva nemmeno a far tacere i suoi tormenti.

C'era chi li chiamava demoni, ma ad Eros non piaceva quella definizione da poeti maledetti in abiti da revenant. I suoi erano spettri, informi come nebulose, che lo assalivano mentalmente nei tempi e nei modi che loro esigevano.

Più volte aveva tentato di spiegare, ma gli artisti non sono bravi con le parole espresse, hanno bisogno di materia tra le mani.

Forse con la creta sul tornio in rotazione, perdendosi nelle strie tra le dita, sarebbe riuscito a superare l'impasse, che non era solo creativo.

C'erano momenti in cui lo aiutava una doccia calda e si era deciso a spogliarsi e agire in quel senso.

Ciò che nessuno sapeva e che mai avrebbe confessato, era il pianto urlato in silenzio sotto lo scroscio d'acqua, con le ciglia bagnate di sale e cloro, coi pugni a battere lenti sulle piastrelle gocciolanti. Ci passava un tempo indefinito in quella posa, decidendosi a insaponarsi soltanto a sfogo esaurito e lo faceva velocemente, a quel punto, come se fosse in ritardo per qualcosa.

Nel varco aperto per prendere l'accappatoio, lo sbalzo di temperatura gli gelava il centro esatto del cuore e, calcandosi il cappuccio sulla testa rasata fin sotto il naso, si sentiva assente a se stesso, allora.

"Sto impazzendo!", a denti stretti.

Meglio Avere Gioia Oltre Nell'Essenza: il magone.

Quello sentiva e lo tirava fuori, lo esorcizzava nella materia solida: poi stava bene.

Con un telo ripiegato intorno ai fianchi, ancora umido, aveva recuperato martello e scalpello e si era avventato sul blocco immobile.

Ogni colpo un grido, come Narciso che si specchiava nel lago ed Eco, nella sua testa, a ribadirgli il suo lavoro; aveva bisogno di quella ninfa, lo spronava a mostrare la bellezza del suo essere.

Essere osannato da se stesso lo rendeva più forte, lui che era taciturno e maledetto dal sentire, con quella pelle troppo sottile.

Gli occhi si arrossavano di sofferenza pari al concreto dolore della mani: non voleva sentire così profondamente, era una tortura creare.

Il marmo era ora una donna dalle forme armoniose in nuce e, lui che non si affidava alle convenzioni del mestiere, aveva preso un cacciavite a punta quadra e, soffiata via la polvere, si era dedicato al triangolo del piacere, accarezzando con una mano la zona piatta della pancia e soffermandosi, in ginocchio da buon cavaliere, sulle linee morbide dei seni.

Non tutti gli artisti, probabilmente, subivano lo stesso processo creativo, Eros non se lo chiedeva. Per lui creare era vivere a pelle e a cuore.

Sul viso, aveva i brividi lungo la schiena: conosceva benissimo il volto nascosto che bramava di essere palesato, per respirare il suo anelito di vita e d'amore.

Infilando la testa tra le braccia marmoree chiuse sulle sue spalle, a carezzargli la nuca, Eros aveva soffiato sulla superficie del viso e ne aveva delineato i tratti così familiari, sostando brevi attimi per tirar su col naso e starnutire polvere.

Percepiva il pathos dentro mentre muoveva lo strumento su labbra carnose dischiuse, naso morbido e tenero, occhi escatologici e quei ricci neoclassici di cui avvertiva l'odore, come fosse carne.

Sfinito, aveva mollato gli attrezzi; il telo era scivolato in terra, gli occhi bruciavano per la sofferenza e lo sforzo, e si era stretto alla statua con la mollezza del desiderio e dell'inattuabilità, baciando il collo liscio.

"Ti amo", aveva singhiozzato ad orecchie invisibili.


L'arte è pathos dell'essere.



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