Gioco su "Ho visto un re" di Jannacci
Al tramonto, bè poco prima, appena ci si gridava da un campo all'altro, tra gli aranci e i meli, che bastava così (embè!), i tre compari si riunivano nell'aia e, prima di raggiungere le affaccendate mogli, s'intrattenevano col fiasco di vinello e storielle.
Aurelio tirava fuori l'armonica, Enzo il vino e Renato... bè, lui non si può dire (soffriva d'incontinenza). Col sudore accumulato nella giornataccia di fatica, a mò di canottiera della (anti)salute, a turno, inventavano incontri avuti nel bel mezzo del lavoro, frivolezze che, bè é chiaro, si animavano di surreale man mano che si abbassava il livello di liquido nella bottiglia.
Ci fossero state le donne, si sarebbe acceso un fuocherello, canticchiato e azzardato qualche passo di danza, tanto per star su allegri, ma c'erano solo loro tre, eh già.
- Ho visto un letterato -, esordì Aurelio.
- Sa l'ha vist cus'è? -, in coro gli altri due.
- Un prufesur! Accarezzava un gatto, di quelli di lusso eh, col collare e la carta d'identità, rosso (embé, non l'avete mai visto un gatto rosso nobile?). Di tutti i pezzi di carta che aveva vinto con le sue opere, gli avevano sputato sull'attestato al merito della Repubblica, nientemeno! Era famoso el prufesur. E come piangeva, dovevate vederlo! Mica uno sputacchio semplice, eh no: uno di quelli catarrosi, gialli e brutti, eh. Uno sfregio bell'e buono, e lui giù a singhiozzare di sdegno, tanto preso dal dolore da non accorgersi di stringere la mano sul collo del gatto, che prima accarezzava tutto affettuoso -.
- Povero prufesur! -.
- E povero anche il gatto -, con finale d'armonica.
In virtù della fantasia (e della solitudine), nelle ore a vangare, c'era di che inventare e Aurelio sembrava sinceramente partecipe delle lacrime del prufesur, fino a descriverne la casa sontuosa con ricercate cornici a protezione degli attestati di gloria... che, a fare una valutazione (delle cornici, eh), si sarebbe messo su un bel gruzzolo per sfamare tutti i gatti.
Ambè, sì bè.
- Ho visto un imprenditore -, prese la parola Enzo, alzando il bicchiere pieno.
- Sa l'ha vist cus'è? -, in coro gli altri due.
- Un bauscia! Dovevate vederlo, con la sua sciarpa leggera, l'anello d'oro al dito piccolo (e che ne so se era sposato: l'anello era grosso però) e gli occhiali da sole... E che occhi lucidi (non c'era tanto sole, embè): stava bevendo champagna (non campagna, gnurant), le bollicine, con un sacco di belle donne, tutte ignude, più o meno, e il cameriere riempiva i calici, e riempiva riempiva, perché il bauscia era ciucco, poverino, e mica lo sapeva quel che diceva, e diceva "Ancora!" e il pepiatt riempiva, stappava e riempiva. Quando gli è arrivato il conto, gli è preso un colpo, al bauscia eh, e ha dato un pugno al cameriere, che colpo! -.
- Povero bauscia! -.
- E povero anche il pepiatt -, mandando giù l'ultimo sorso.
Amava il suo vinello, Enzo, e non poteva nemmeno immaginarlo come sarebbe stato pagare per un po' di bottiglie: se le bollicine andavano giù con l'inganno come il suo vino, lo poteva capire il bauscia... chè, dopo mezza boccia, era facile perdere il lume (quello della ragione, non dell'illuminazione, chè i posti che frequentava il bauscia ne avevano di luci).
Ambè, si bè.
Abbottonandosi la patta, di ritorno dall'albero innaffiato, Renato rideva ebbro di alcool e di stanchezza, con la testa già a letto, incollato alla sottana della moglie.
- Ho visto un politico -, sbottò con serietà.
- Sa l'ha vist cus'è? -, in coro gli altri due.
- Un trombon! Che bella giacca che aveva, dovevate vederlo, e pure i pantaloni, dovevate vedere dico, embè. Stava tutto impettito, con la cartella vuota e il cuore gonfio, chè aveva perso le schede elettorali, i voti insomma, per un soffio (non al cuore, dai, quello era chiuso) e stringeva il manico della cartella di pelle di lusso, tanto che aveva le dita bianche poi, non circolava più il sangue e sbuffava un alito caldo che lo potevi vedere, come i cavalli, perché stamattina faceva freddo eh (lo so perché mi scappa di più, col freddo) -.
- Povero trombon! -.
- E povero pure io -, battendosi il petto.
Ambè, sì bè.
E i tre sospiravano, urtavano i bicchieri dell'ultima staffa e sorridevano.
La stanchezza sembrava passare in quei momenti poco prima di rincasare, quando la comitiva di compari si buttava a sedere su tre tufi (bè, Renato si rilassava meno, dovendo far minzione spesso), aspettando che il fattore consegnasse loro il sudato salario (che non era salato perché loro non versavano lacrime, al massimo sproloquiavano contro la schiena che non voleva saperne di farsi elastica).
- Vedo tre contadini -, sopraggiunse il padrone.
- Sa l'ha vist cus'è? -, in coro tutti e tre.
- Tre villan! Tutte le sere se ne stanno qui: uno con l'asma che si ostina a suonare l'armonica, uno col naso rosso che avrà il fegato come una spugna e l'altro che m'innaffia gli alberi pisciando ognora -, mani sui fianchi.
- Povero padrun! -.
Ambè, sì bè.
- Ma che c'avete da ridere ogni sera? -, incuriosito dalle vicende.
Più quello si lamentava, più loro sorridevano, mordendosi le guance per trattenere il riso vero e proprio, scambiandosi sguardi complici di una comune visione del mondo: c'era da star allegri, avendo poco, perché ad essere altezzosi, avari e truffaldini c'era sempre di che rimetterci in salute (e ricchezza).
Ambè.
... senza contare il malanimo che gli altri si facevano a vederli sempre allegri.
Comments